About Management
Open & Openness
primo step
#open;#openness;#liquida;#soggettività;#pluralità;sistema aperto;societàliquida;

" Essere aperti" dovrebbe essere non un mantra o una filosofia, ma un approccio ragionato e rigoroso alla strategia e alla leadership, in grado di fruttare risultati concreti. Non stiamo parlando di trasparenza totale e di apertura completa per chiunque, dai clienti ai competitor, ha accesso a tutte le informazioni e ciascuno viene coinvolto in tutte le decisioni. Un tale livello estremo è irrealistico e sarebbe insostenibile in una azienda che voglia mantenere il vantaggio competitivo e la capacità di funzionare a dovere".
Come inizio libro non c'è male. Accanto al mantra dell'apertura troviamo subito un confine. Domanda: chi lo stabilisce? La faccenda viene risolta con il lasciare andare ed "l'essere veri".
Il punto vero di criticità è probabilmente quello di partenza, cioè che l'esigenza di apertura parta dai social network, dalla tipologia di relazione che essi impongono. Certo che il "peer to peer" di cui si nutrono i social ha profondamente modificato la traiettoria relazionale e, con essa, il tipo di coinvolgimento relazionale tra gli attori delle relazioni. Di certo essa diviene piatta, senza ascendenze o discendenze. Scompare anche il concetto di comunicazione bottom up e top down e, con esso, la dimensione gerarchico-organizzativa della comunicazione...Dunque....dove sarebbe l'eventuale contraddizione?
Se assumiamo per un attimo la prospettiva organizzativa e non partiamo da quella
relazionale, si deve necessariamente partire dall'idea di organizzazione aperta che, di per se, non è affatto nuova nelle storia dello Sviluppo Organizzativo. Von Bertalanffy, nel 1950, definisce l'organizzazione come Sistema Aperto. Un sistema che ha relazioni con l'esterno, che ha un equilibrio dinamico interno, che si adatta all'ambiente circostante dal quale riceve input e nel quale rilascia output. In verità, un possibile limite di questo modello è la ricerca spasmodica dell'equilibrio omeostatico, fortemente voluto dai principi fisici della termodinamica di cui, il modello, paga un minimo di sudditanza ma apre però spazi importanti ai sistemi sociali organizzati. Con Emery &Trist ed il TavistocK Institute troviamo poi i primi studi che daranno poi vita ai "sistemi socio-tecnici", all'analisi dei processi interno-esterno, alle relazioni tra persone e persone, tra persone e tecnologie, alla definzioine di strutture e processi organizzativi. Dunque, secondo questo "punto archimedico di osservazione" l'organizzazione è altamente influenzata dal contesto, dalle caratteristiche del territorio in cui opera, sino ad essere fortemente influenzata dalla dimensione GloCale, dalla evoluzione delle tecnologie. La conformazione, la morfologia, il disegno e la rappresentazione organizzativa evolvono nella continua dinamica di interscambio, non necessariamente omeostatico.
Se ci concentriamo per un attimo su COME l'evoluzione sociale "porta dentro" le organizzazioni nuove istanze è possibile intercettare una dinamica diversa da quella indicata da Charlene Li, non legata all'affermazione dei social network ma dal radicale cambiamento del tessuto sociale ed alla sua differenziazione, agli effetti della globalizzazione, alla insorgenza di fenomeni di massa nuovi, alla natura diversa dei processi e della qualità delle relazioni. L'insorgenza della società liquida descritta da Zygmunt Bauman, ha origine dalla crisi delle modernità e della razionalità, dentro un post modernismo in cui la mercificazione della vita e delle persone decide anche l'essere inclusi o esclusi. Con la disgregazione delle comunità e dei valori da essa provenienti, saltano le uniformità valoriali e comportamentali, in luogo di una frammentazione, una polverizzazione di anime infinitesimali che sviluppano morali soggettive, autoreferenziate, lontane dai paradigmi omologanti con una visione di integrazione delle incoerenze. La morale di Bauman è irrazionale e, come tale, descrive una pluralità infinità di identità e relazioni etero valoriali che si possono aggregare e disgregare velocemente intorno ad un problema, una passione, una post verità. Tutto questa genera liquidità sociale, un liquido di relazione umane che vivono in una dimensione sospesa, complessa e senza centri di gravitazione costanti. Un enorme problema di ricerca di identità. Il quadro è delineato è che la convinzione "che il cambiamento è l'unica cosa permanente e che l'incertezza è l'unica certezza".
Partendo dunque da questa ultima prospettiva, scopriamo che i social network sono in frutto di una innovazione ed evoluzione tecnologica, del web 2.0, sono in un certo senso espressione del tempo ma, il tempo, e frutto di una evoluzione storico-sociale e l'origine delle necessità di apertura delle aziende al mondo esterno non è cosa sollecitata dai social. Le aziende non devono interessarsi al fenomeno dei social perché devono preservare la loro reputazione o per la possibilità che i social possano intaccare la loro immagine. L'apertura, la necessità di vedere le organizzazioni in una prospettiva aperta non è cosa recente ed i sistemi aperti lo hanno indicato da tempo. L'apertura, la spinta verso una visione openness nasce più dalla necessità del superamento dell'autoreferenzialità, dalla presunzione che al proprio interno ci siano tutte le risorse e le competenze per poter trovare le risposte all'innovazione dei prodotti e servizi. L'azienda o l'organizzazione, aprendosi può andare ad intercettare le micro soggettività, network e che operano su dimensioni spazio-temporali inusuali per esempio di natura globale. Può pescare nella liquidità dove è possibile ci siano valori, competenze e saperi che possono consentire di progettare e co-progettare prodotti e servizi realmente innovativi. È questo genere di apertura che può divenire vantaggio competitivo da una parte e, dall'altra, sviluppo continua di una capacità relazionale generativa che, questa si, pone problemi di sviluppo di capacità relazionali nuove.
Generation E - Expertise

Born between 1960 and 1970. We are not Millennials, GenY, Generation Next, Netgeneration but we can contribute to increase knowledge in actual and next genaration. We are not young person but having a high level of education, goog digital expertise, and a global perspective that derives not from travel habits and acquaintance but from our experience with different cultures and companies. At the same level of Millennials we have high levels of self-awareness, need frequent stimulation wirth rilevant comparison. Identifies more with his/her own professional capabilities and his/her professional network of reference, is not an exclusive og Millennials but a deep need for all the professionalism. We possess relevant expertise and we struggle to find a context where you can pass on to Millennials, GenY, Generation Next, Netgeneration.
Sviluppo Organizzativo

Iniziamo a capire che bestia è l' Organisational Development!!!!
Intanto parliamo di una disciplina, cioè un modo particolare di vedere ed approcciare l'Organizzazione del lavoro, di qualsiasi tipo, pubbliche o private,entità o legate a qualsivoglia business di riferimento.
Ma, in concreto, quali competenze deve avere un esperto di Sviluppo Organizzativo?
In prima approssimazione possiamo dire che i temi che fanno parte di questa disciplina sono:
- processi organizzativi,
- cultura organizzativa,
- l'efficacia dei team ,
- la leadership,
- la gestione e lo sviluppo delle persone,
- il benessere individuale e collettivo,
- la struttura dell'organizzazione,
- la sua tecnologia,
- la comunicazione interna,
- la formazione e sviluppo delle competenze,
- la selezione del personale.
Il tema quindi è molto complesso, difficile da "modellizzare", che richiede però una capacità di possedere un "punto archimedico di osservazione" particolare, complesso e complicato allo stesso tempo, con una capacità di sapere tradurre poi modelli e soluzioni in maniera concreta e molto, molto pratica.
Scorciatoie non ce ne sono e forse è per questo che una nota rivista degli ultimi trent'anni ha chiuso i battenti. L'ultimo libro decente su questo tema è del 1991, poi solo copie di cose che non aggiungono nulla a questa disciplina.
Talento contro Expertise

Nel campionato più importante è arrivata la partita fondamentale. Sul terreno della conoscenza ormai si affrontano inesorabilmente, in una partita combattutissima, due opposte tendenze che per molti appaiono inconciliabili.
Da una parte la annuale e spasmodica ricerca di fenomeni, al massimo quarantenni, vitali, che mostrano caratteristiche straordinarie, in grado di poter cambiare le sorti di un'azienda, di un squadra sportiva, di una nazione. Dall'altra, l'esperienza, fatta di cose agite e vissute, non ipotetiche o sperimentali, che guardano al cambiamento con una energia diversa, meno dirompente, che poggia su consolidati e calpestati "metri di marciapiede".
Di sintesi non si trova traccia alcuna, né ci sono casistiche che ci possono raccontare che qualcuno ci abbia provato la tendenza attuale è quella della inconciliabilità.
Molti, molti anni fa, giocavo in una squadra di calcio fatta di ragazzi che normalmente battevano la Roma e la Lazio nei vari tornei cittadini. Eravamo ragazzi di borgata, nati con il pallone tra le gambe e abituati a combattere, sempre, contro tutto e tutti e fino all'ultimo.
Molti erano i talenti, uno dei quali arrivato anche in nazionale ma, tra di noi, c'era un talento straordinario, giocava libero e a quattrodici anni ne mostrava già venti. Sembrava di vedere già Baresi. Inutile dire che era corteggiatissimo e che le offerte erano pressoché quotidiane: Roma, Juventus, Lazio.
La mia famiglia si trasferì ed io lascia quella squadra.
Dopo molti anni in uno dei miei viaggi Milano-Roma arrivai in un caldo pomeriggio, stanco come non mai. Facevo per uscire dalla stazione quando mi viene incontro un ragazzo, seduto su una panchina di marmo, con la testa piena di ricci, lunghi, fatti a truciolo e parecchio sporco.
" Aho che me dai cento lire. E daje.....". Non lo guardai nemmeno mandandogli non so più quale parolaccia. Dopo una decina di metri però mi fermo, penso...forse ricordo male.....era lui, il libero che a quattordici anni era più forte del mondo!
Quella lezione di vita, importante, mi fece capire che c'era un motivo per cui un altro talento della nostra squadra invece aveva esordito in serie A ed era arrivato in nazionale. Questo talento aveva saputo ascoltare, essere umile ed apprendere, fino al punto di dire di si al grande Nils Liedholm che da centrocampista lo trasformò in terzino destro, insegnandogli ad agire in un ruolo per lui, sono sicuro, sconosciuto.
A Naso!

Negli anni novanta, in una importante compagnia petrolifera, mi trovavo a parlare con gli specialisti delle perforazione, subito dopo un corso di geologia e logica della stratificazione. Mi era parso di capire che le sacche dove potenzialmente il petrolio poteva risiedere non avesse una conformazione regolare mentre invece la trivella, obbligatoriamente, si muoveva per linee rigide e verticali. Chiesi allora a quello che era considerato il best in class della perforazione come si fosse regolato lui, visto che ogni metro di perforazione ha dei costi enormi. Mi guardò, stette un poco a pensare e mi disse toccandosi io naso "A naso!".
Era invece il 1998 quando arrivai nella mia ultima azienda farmaceutica e quasi subito mi chiamò il Direttore della Produzione e mi disse: "Io ho un problema serio, tra qualche mese andranno in pensione delle persone che rappresentano la storia della nostra produzione. Sanno molte cose e temo che dovremmo riassumerli".
L'anno prima era uscita la versione italiana di " The knowledge creating company" ¹ (https://it.wikipedia.org/wiki/Knowledge_management ) e dal quel momento in poi gli uomini e i consulenti dello sviluppo organizzativo dovettero confrontarsi con l'ennesima pletora di convegni sul tema di moda dove la dominante era il modello di Nonaka ed, aggiungo, Takeuchi.
La dilapidazione impressionante di capitale intellettuale che negli anni si perpetua nelle aziende farebbe crollare qualunque borsa se questo capitale fosse quotato come meriterebbe. Finiscono importanti progetti nelle aziende e praticamente mai si lavora sulla sistematizzazione delle esperienze, sugli errori commessi, 2 sulle condivisioni di sapere che hanno permesso il successo di un progetto o su le mancate cose che hanno portato ad un fallimento. Gli stessi economisti che devono dare valore ad una azienda non danno la rilevanza che merita l'expertise, cioè quell'insieme magmatico di competenze, esperienza sul campo e riflessioni che hanno permesso ad un persona di crescere professionalmente sino ad utilizzare bene il proprio naso.
Oggi il tema della società liquida, delle reti e dei social network pongono in maniera dirompente il tema del dove e quando apprendiamo. Il luogo dell'apprendimento non è da tempo confinato nell'aula ed le competenze professionali si sviluppano lungo tutto l'arco temporale di lavoro, con una obsolescenza accelerata del turbo capitalismo.
Le forme ed i luoghi di apprendimento sono infiniti. Si apprende per imitazione o cross fertilisation, per confluenza o resilienza, per cooperazione o coo-petizione (https://it.wikipedia.org/wiki/Resilienza_(psicologia).
Quasi sempre però l'apprendimento non è condiviso e resta un fatto personale, quasi privato che consente alle persone di essere poi competitive sul mercato del lavoro e, appunto, di essere poi richiamate dalle aziende come "sacerdoti del know how".
La sfida del Knowledge Management del terzo millennio, a mio avviso, non è quella decisa dal migliore sistema informatico di repository o dalla rete neurale in grado di interconnettere mondi infinitesimali di sapere.
La sfida è sempre la stessa e molto semplice, ai limiti delle banalità, cioè quella di rendere le competenze ed il valore di esse un atto " emerso", consapevole e codificato e di implementare modalità di condivisioni formalizzate e legate alle convinzione che il confronto di conoscenze aumenta esponenzialmente il valore del capitale umano.
CONOSCENZE o COMPETENZE?

La scorsa settimana, di buona mattina, ho fatto una delle passeggiate che preferisco di più, lungo la riva del fiume Muzza, poco fuori Milano.
C'era un pescatore, probabilmente ventenne o giù di lì, e da lontano si sentivanole sue imprecazioni, tra il rumore dell'acqua e qualche gracchio di uccello, forse un airone.
Il motivo delle sue imprecazioni era che il galleggiante risultava troppo leggero per la velocità dell'acqua e proprio non riusciva a farlo passare in un punto preciso, dove, a suo dire, sicuramente c'erano pesci da "tirar su pesci". La corrente in quel punto era abbastanza forte mentre, poco più in là, rallentava e si incanalava in una piccola ansa, probabile zona di riposo di tinche e carpe. Ma lui aveva visto "tirar su pesci" in quel posto e, quindi, perché lui no?
Noi uomini di sviluppo organizzativo siamo certamente malati o con qualche sinapsi deteriorata dal tempo perché, e non si capisce il perché, in quel momento mi sono venute davanti agli occhi molte paginedi "The knowledge creating company", testo sacro ripreso in mano dopo anni, grazie al mio carissimo amico Paolo.
Ma nella mia testa riformulavo in modi diversi la stessa domanda: la faccenda del pescatore era un problema di conoscenze o competenze?
Improvvisamente realizzo che in tutto il libro di Nonaka e Takeuchi la parola competenza non c'è! Non se ne trova traccia!
Sono quindi iniziati i dolori, non certamente quelli del giovane Werther, ma di un appassionato dello Sviluppo Organizzativo che non riusciva in quel momento a trovare la quadra, neanche con l'aiuto di Giordano Bruno, o meglio di Fabrizio Mordente [1].
Il modello delle competenze, che pare sia oggi completamente dimenticato dai più, scomparso dai blog, siti e, soprattutto da quelli che si occupano di social organisation, resta, a mio parere, un punto di riferimento irrinunciabile per chi si occupa di O.D.
La declinazione del modello di competenze che ritengo più corretta, efficace ed utile, è quella che focalizza la competenza come "centrata" sui comportamenti.
Da cosa comprendiamo che una persona è competente? Da quello che effettivamente "mette in campo" o "manifesta socialmente", trasformando cioè in modalità di lavoro professionale concreta il suo sapere, facendoci così comprendere che siamo di fronte ad una persona è in grado di "saper pescare" in un fiume. Non avendolo però visto pescare in un lago non sappiamo se è in grado di farlo in quel contesto. Apparentemente sembrerebbe la stessa cosa ma non è così!
La constatazione terribile che viene a valle di queste riflessioni è che le conoscenze, per il modello delle competenze, sono solo una parte delle professionalità, sono relegate nella sfera del "sapere".
Piccola ed innocente domanda: quindi Nonaka e Takeuchi si sono occupati esclusivamente di come si trasferisce, organizza e si condivide il sapere in una organizzazione? E le competenze che fine hanno fatto?
Una soluzione forse, sottolineo forse, mi pare di averla intuita, ma non so se possa consentire a tutti di poter "tirar su pesci" da qualsiasi tipo di acqua.
[1] Era considerato in dio dei geometri. Resta celebre per il suo compasso, il compasso proporzionale ad otto punte, capace di creare un cerchio in un quadrato con i perimetri di ugual misura( https://it.wikipedia.org/wiki/Fabrizio_Mordente)